Inni di battaglia
Non esistono analisi che funzionino: è al momento degli inni che si capisce come andrà a finire la partita. Prendete ieri sera Francia – Irlanda. Sia da una parte che dall’altra c’erano occhi lucidi non solo sul campo, ma anche sugli spalti. Si respirava la carica standosene seduti sul divano di casa, guardando semplicemente la televisione e lasciandosi prendere dalle note e dalle parole che risuonavano nel cielo parigino. Si è inteso immediatamente, ieri, che sarebbe stata partita tesa e vinta da chi avrebbe avuto i nervi meno tesi. Come Michalak, perché se solo avesse avuto poca lucidità e la gambetta, non avrebbe sfornato quel calcetto per la sua ala che ha dettato il nuovo ritmo alla partita. E al Mondiale.
Nel rugby gli inni sono (quasi) tutto. Oggigiorno, prima dei grandi incontri, mentre i giocatori sono in fila nel tunnel degli spogliatoi pronti a fare il loro ingresso in campo, il clima sale con qualche colonna sonora tratta da film come Il gladiatore o roba simile. Si percepisce la sensazione di essere in mezzo ad una battaglia. Di essere nell’arena a sostenere la propria identità e il proprio orgoglio nazionale. Poi entrano i giocatori, accolti dal tripudio della folla. Scattano e si fermano, si ritrovano in cerchio e si caricano con le parole del capitano. Poi si distendono che le facce rivolte alla tribuna centrale e si abbracciano per l’inno di casa. Si abbracciano e si strattonano, ciascuno tira verso di sé il compagno afferrandogli la maglietta come a voler dire: “Dove vai tu, arriverò pure io”.
La gente, dentro e fuori dalle mura, si gasa. E chi riesce a razionalizzare di più la tensione va a vincere. La Francia ieri sera poteva rendersi protagonista del più grande fiasco della sua storia: uscire al primo turno dal Mondiale giocato in casa. L’Irlanda doveva dimostrare che Namibia e Georgia erano stati scherzi, che era giunta a Parigi per fare sul serio. Ma l’Irlanda, lo abbiamo detto più volte, è l’eterna incompiuta. E’ come l’Argentina calcistica di quest’ultima parte di storia sportiva, data sempre per favorita e poi irrimediabilmente sepolta dalle critiche per la delusione che si trascina dietro. I galletti gli hanno strapazzati anche a Dublino nello scorso 6 Nazioni, rubandogli la vittoria al nuovo stadio, tempio del calcio gaelico, con l’ultima azione dell’incontro. E’ finito un ciclo, sempre ammesso che fosse cominciato: perché senza le vittorie che vai cercando, è difficile parlare di capitolo che si chiude.
Gli inni ce lo avevano fatto intuire. Figurarsi quando si tratterà di affrontare la Nuova Zelanda, che attacca con God of nations e finisce con l’Haka. Altro che megalomani, loro hanno capito tutto.
2 commenti:
Largo al Brett "romantico conservatore", che vola alto e "legge" chi vince dagli inni :D
Danny rimane dal canto suo convinto conservatore ruspante "da mischia", crede nel lavoro sporco e nelle "analisi che funzionano" (esistono eccome, basta leggere Right Rugby).
Altrimenti da tempo avrebbe migrato al più romantico, spettacolare e "calcistico" ma meno tatticamente rigido e leggibile rugby a 13 ..
Dopotutto è uno dei motivi per cui Lord Sinclair e Danny Wilde si completano a vicenda ...
;)
Ps: io al rugby a 13 mi ci applicherei volentieri, se riuscissi a correre come rugby comanda.
Ps2: in effetti, Right Rugby non ha ancora sbagliato fino ad ora.
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