lunedì 27 settembre 2010

Con quei caschetti un po' così...

C’è qualcosa di nuovo nell’aria spesso stantìa del giuoco del calcio. Prima Alberto Malesani, tecnico del Bologna, che fa allenare i suoi prendendo in prestito alcune tecniche del rugby per far circolare la palla al largo e velocemente. Poi le cyclette a bordo campo che hanno fatto il loro debutto nell’ultimo turno di Serie A, per agevolare il riscaldamento dei panchinari: noi le avevamo già, primi gli Australi. Infine il caschetto che spiccava sulla testa del norvegese John Arne Riise, terzino destro della Roma, nell’anticipo del sabato sera contro l’Inter. Che schierava sempre come terzino destro Cristian Chivu (nella foto), uno che ormai ci ha abituati al caschetto da tempo, dopo il terribile colpo alla testa lo scorso 6 gennaio, contro il Chievo Verona che provocò una frattura del cranio.
Le strade di rugby e calcio si incrociano e non solo per gli stadi presi in prestito dalla palla ovale: dal San Siro di Milano, al Friuli di Udine, dall’Olimpico di Torino al Bentegodi di Verona che ospiterà Italia – Argentina per i Test Match del prossimo novembre. Chi bazzica nel mondo del rugby, è abituato a vedere – o a indossare – questi caschetti protettivi. Di solito se li infilano sulla testa gli uomini del pack, ma capita di vederli addosso un po’ a tutti, come ad esempio a Leigh Halfpenny l'ala gallese, Matt Giteau o Berrick Barnes, backs australiani.
Nella versione calcistica hanno pure una variante nell’aspetto: perché se all’origine sono fatti per tutelare anche le orecchie – ne sanno qualcosa quelli costretti dal ruolo a infilarle tra le gambe di prime e seconde linee -, sia Riise che Chivu hanno pensato bene di ricavar due buchi all’altezza delle orecchie. Intuitivamente, per agevolare l'udito, dato che il giuoco non comporta infilare la testa in posti che producano le cosiddette “orecchie a carciofo”. Oltretutto Chivu, dopo qualche minuto slaccia regolarmente il caschetto da sotto il mento, e uno a quel punto si domanda a che gli serve, misura psicologica?
Il precursore della nuova moda pallonara rimane senza dubbio Petr Cech, il portiere del Chelsea. Il 14 ottobre 2006 affrontando il Reading (nel cui stadio, il Madjeski, i London Irish disputano i match casalinghi), dopo nemmeno 20 secondi dal fischio d’inizio si scontrava con l’avversario Stephen Hunt, con conseguente frattura al cranio che poteva costargli caro. Ma a soli 98 giorni dall’infortunio si ripresentava in campo contro il Liverpool indossando il noto caschetto e provocando la reazione degli sponsor. L’oggetto in questione era prodotto dalla Canterbury New Zealand, marchio noto nel rugby. A quel punto l’Adidas, rifacendosi al contratto esclusivo che la legava al club londinese, ha protestato perché lei i caschetti non li aveva a catalogo. Ora non mancano più, si capisce.

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