Also sprach Castrogiovanni
Martin Castrogiovanni ha rilasciato alla Stampa di Torino (Stefano Semeraro) un'intervista con spunti interessanti.
Il pilone dei Tigers di Leicester, uno dei migliori interpreti del ruolo di tighthead prop a livello mondiale, si va difatti affermando come autentico leader della compagine Azzurra. Non è una leadership "formale", da capitano: quel ruolo spetta ad altri più forbiti e "presentabili"; quella del Castro, sempre più evidente nel team, è edificata nel tempo, con l'esperienza e la reputazione di uno che tutti ha visto arrivare e tanti li ha fermati. In gergo aziendale si direbbe una "fox": un punto di riferimento per tutti, l'interprete migliore del mood profondo della squadra. E in tale veste informale si può permettere di usare meno cautele di altri quando esterna, è meno esposto alle banalità da inevitabili "domande di cortesia" (come ci si sente al terzo mondiale? Etc.etc.) e quindi più facile da "tradurre".
Andiamo quindi a "centellinare" alcune parti delle sue dichiarazioni.
D.: Vi guida Nick Mallett che a Mondiale finito se ne andrà. Situazione difficile? «No, tutta la squadra è con lui (...) Lui ci ha dato tanto e sarebbe rimasto. La decisione l'hanno presa altri».
Stiamo con chi ha lavorato e non ha "tradito", servono ulteriori commenti? Poi ci si stupisce (ma solo a Roma) se Dondi vien fischiato a Padova, dove di rugby e di sport in genere se n'intendono.
Sempre nella medesima risposta, veritiera e lapidaria la definizione del quadriennio Mallett: «Con Berbizier abbiamo vinto di più, con Nick giochiamo meglio».
Se è evidente quanto il gioco Azzurro e la tenuta per ottanta minuti siano migliorati, è anche vero però che nel rugby chi gioca "meglio" vince. Da cui se ne ricava che: (a) tutto è relativo, gli avversari han corso avanti più veloci dei nostri recuperi e (b) quello su cui Mallett ha inciso meno è stato non la coesione di squadra (carente nel 2007) ma probabilmente la "mentalità".
Lo indica lo stesso Castro, analizzando come mai la Nazione in cui si guadagna da vivere vada ai Mondiali a "fari spenti" rispetto alle Australi ma arrivi spesso in finale :«Gli inglesi (...) hanno una grinta eccezionale, lo so perché vivo a Leicester: sono duri, testardi e se vogliono qualcosa la ottengono».
Sul fronte Mondiale, il nostro pilone "voce del profondo team" la vede come segue.
Con l'Australia, il fatto che abbiamo ben figurato contro di loro a Firenze e prima a Padova nel 2009, è paradossalmente un problema in più: «Se ne ricorderanno! Ma dovremo provarci»: non fa conto su loro cali di tensione.
Quanto a Russia e Usa «Sono team molto fisici. In campo sono dei duri, dovremo preparare bene il piano di gioco, non possiamo rischiare». Notare, è paro paro quel che dicono di noi le Nazioni "evolute" ... Come fan quelli forti con noi allora: vigile rispetto nella consapevolezza di esser più forti, formazione "giusta" e occhio agli infortuni.
E arriviamo all'Irlanda, è più vulnerabile che in passato? Castro pare pensarlo, se non altro per una sorta di "giustizia divina": «Quest'anno abbiamo perso di un punto a Roma, vincere di uno al Mondiale sarebbe la giusta compensazione. Sarà dura».
Sull'annoso tema del nostro punto più scoperto, l'apertura - piazzatore, Castro centra il punto ma sulle cause ha idee diverse dalla nostra: «Non ha senso cercare il nuovo Dominguez. Ma in Celtic League i club italiani in quel ruolo fanno giocare gli stranieri: è un problema del movimento, non della Nazionale». Cioè, all'apertura (e a piazzare) ci teniamo chi abbiamo e non ha senso attendersi miracoli, ma rimane un punto debole che assilla.
Su questo siamo d'accordo col nostro pilone, mentre non lo siamo sull'analisi e quindi sulle "ricette" che vanno per la maggiore: prima di tutto non è vero che le Celtiche non hanno aperture nazionali (Bocchino stesso o Burton, di dove sortiscono? E il "dirottato" McLean? E il più promettente di tutti, Marcato, da chi fu scaricato ben prima che dalla Benetton? ).
Non è un problema della Nazionale, dice Castro, è del "movimento". Quindi che ci azzeccano le Celtiche che ne sono l'apice, mal connesso col resto per giunta? Invece di gravarle con lacci e lacciuoli regolamentari self inflicted sugli stranieri, lasciamole libere, aiutandole a provare a vincere i campionati e le coppe, come si fa in Galles e Irlanda: oltre ad evolvere i singoli ruoli, si risolverebbero anche i ben più gravi problemi di mentalità perdente che affliggono l'insieme della compagine!
Più allineati col Castro siamo quando torna sul suo terreno, a parlar di mischia ordinata. Dopo aver ricordato San Siro, quando (aggiungiamo noi) l'aver messo coi compagni a faccia sotto la mischia All Blacks, gli costò le rampogne del capo mondiale degli arbitri, il neozelandese Paddy O'Brien (un fatto inaudito, che anticipò quel che sta succedendo oggi agli arbitraggi, a nostro sommesso avviso), il nostro analizza con lucidità il delicato momento sul piano delle interpretazioni regolamentari:«Non è giusto che a decidere siano loro (gli Australi, ndr), ma nel rugby come nella vita gli interessi in gioco sono tanti». Ancora una volta è la miglior sintesi. Benedetta da una conclusione che suona da impegno: «Vedremo in Nuova Zelanda chi è il più forte». Evvai!
Il pilone dei Tigers di Leicester, uno dei migliori interpreti del ruolo di tighthead prop a livello mondiale, si va difatti affermando come autentico leader della compagine Azzurra. Non è una leadership "formale", da capitano: quel ruolo spetta ad altri più forbiti e "presentabili"; quella del Castro, sempre più evidente nel team, è edificata nel tempo, con l'esperienza e la reputazione di uno che tutti ha visto arrivare e tanti li ha fermati. In gergo aziendale si direbbe una "fox": un punto di riferimento per tutti, l'interprete migliore del mood profondo della squadra. E in tale veste informale si può permettere di usare meno cautele di altri quando esterna, è meno esposto alle banalità da inevitabili "domande di cortesia" (come ci si sente al terzo mondiale? Etc.etc.) e quindi più facile da "tradurre".
Andiamo quindi a "centellinare" alcune parti delle sue dichiarazioni.
D.: Vi guida Nick Mallett che a Mondiale finito se ne andrà. Situazione difficile? «No, tutta la squadra è con lui (...) Lui ci ha dato tanto e sarebbe rimasto. La decisione l'hanno presa altri».
Stiamo con chi ha lavorato e non ha "tradito", servono ulteriori commenti? Poi ci si stupisce (ma solo a Roma) se Dondi vien fischiato a Padova, dove di rugby e di sport in genere se n'intendono.
Sempre nella medesima risposta, veritiera e lapidaria la definizione del quadriennio Mallett: «Con Berbizier abbiamo vinto di più, con Nick giochiamo meglio».
Se è evidente quanto il gioco Azzurro e la tenuta per ottanta minuti siano migliorati, è anche vero però che nel rugby chi gioca "meglio" vince. Da cui se ne ricava che: (a) tutto è relativo, gli avversari han corso avanti più veloci dei nostri recuperi e (b) quello su cui Mallett ha inciso meno è stato non la coesione di squadra (carente nel 2007) ma probabilmente la "mentalità".
Lo indica lo stesso Castro, analizzando come mai la Nazione in cui si guadagna da vivere vada ai Mondiali a "fari spenti" rispetto alle Australi ma arrivi spesso in finale :«Gli inglesi (...) hanno una grinta eccezionale, lo so perché vivo a Leicester: sono duri, testardi e se vogliono qualcosa la ottengono».
Sul fronte Mondiale, il nostro pilone "voce del profondo team" la vede come segue.
Con l'Australia, il fatto che abbiamo ben figurato contro di loro a Firenze e prima a Padova nel 2009, è paradossalmente un problema in più: «Se ne ricorderanno! Ma dovremo provarci»: non fa conto su loro cali di tensione.
Quanto a Russia e Usa «Sono team molto fisici. In campo sono dei duri, dovremo preparare bene il piano di gioco, non possiamo rischiare». Notare, è paro paro quel che dicono di noi le Nazioni "evolute" ... Come fan quelli forti con noi allora: vigile rispetto nella consapevolezza di esser più forti, formazione "giusta" e occhio agli infortuni.
E arriviamo all'Irlanda, è più vulnerabile che in passato? Castro pare pensarlo, se non altro per una sorta di "giustizia divina": «Quest'anno abbiamo perso di un punto a Roma, vincere di uno al Mondiale sarebbe la giusta compensazione. Sarà dura».
Sull'annoso tema del nostro punto più scoperto, l'apertura - piazzatore, Castro centra il punto ma sulle cause ha idee diverse dalla nostra: «Non ha senso cercare il nuovo Dominguez. Ma in Celtic League i club italiani in quel ruolo fanno giocare gli stranieri: è un problema del movimento, non della Nazionale». Cioè, all'apertura (e a piazzare) ci teniamo chi abbiamo e non ha senso attendersi miracoli, ma rimane un punto debole che assilla.
Su questo siamo d'accordo col nostro pilone, mentre non lo siamo sull'analisi e quindi sulle "ricette" che vanno per la maggiore: prima di tutto non è vero che le Celtiche non hanno aperture nazionali (Bocchino stesso o Burton, di dove sortiscono? E il "dirottato" McLean? E il più promettente di tutti, Marcato, da chi fu scaricato ben prima che dalla Benetton? ).
Non è un problema della Nazionale, dice Castro, è del "movimento". Quindi che ci azzeccano le Celtiche che ne sono l'apice, mal connesso col resto per giunta? Invece di gravarle con lacci e lacciuoli regolamentari self inflicted sugli stranieri, lasciamole libere, aiutandole a provare a vincere i campionati e le coppe, come si fa in Galles e Irlanda: oltre ad evolvere i singoli ruoli, si risolverebbero anche i ben più gravi problemi di mentalità perdente che affliggono l'insieme della compagine!
Più allineati col Castro siamo quando torna sul suo terreno, a parlar di mischia ordinata. Dopo aver ricordato San Siro, quando (aggiungiamo noi) l'aver messo coi compagni a faccia sotto la mischia All Blacks, gli costò le rampogne del capo mondiale degli arbitri, il neozelandese Paddy O'Brien (un fatto inaudito, che anticipò quel che sta succedendo oggi agli arbitraggi, a nostro sommesso avviso), il nostro analizza con lucidità il delicato momento sul piano delle interpretazioni regolamentari:«Non è giusto che a decidere siano loro (gli Australi, ndr), ma nel rugby come nella vita gli interessi in gioco sono tanti». Ancora una volta è la miglior sintesi. Benedetta da una conclusione che suona da impegno: «Vedremo in Nuova Zelanda chi è il più forte». Evvai!
2 commenti:
Marcato
:,(
ehh .... Alla SUA vittoria con la Scozia, la prima di Mallett (quel drop ... poi c'è gente che - giustamente - rimane a bocca aperta per quello di O'Gara, quest'anno), m'ero detto, abbiamo trovato l'apertura per i prossimi anni.
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