Super Chiefs, Sharks sfiancati
E' durato un po' meno di un tempo il sogno degli Sharks di rovesciare i pronostici e la logica, nella finale del SuperXV disputata al Waikato Stadium di Hamilton in casa Chiefs e conclusa con un 37-6, quattro mete a zero. Il prodotto del vantaggio del campo - difficilmente trascurabile nel rugby - coi letti regolarmente cambiati da settimane a decine di migliaia di chilometri l'uno dall'altro, non ha lasciato scampo.
Alla fine la differenza la fanno una meta per tempo neozelandese (le altre due oltre l'ora di gioco eran garbage time) contro un piazzato per tempo, ed è la quarta volta in fila che gli Sharks non riescono a far meta ai Chiefs.
I fattori cruciali della partita sono stati la stanchezza e in una certa qual misura l'appagamento Sharks (per la vittoria con gli Stormers del weekend scorso, voluta e meritata ma di Pirro per il rugby sudafricano), sui quali s'è lanciata senza pietà la macchina da guerra a trazione 15x15 tutta intensità, allestita splendidamente in una stagione dal debuttante a questi livelli Dave Rennie col consigliori senior Wayne Smith.
I sudafricani han retto molto bene per un quarto d'ora, arrivando ad impensierire i padroni di casa ma raccogliendo solo 3 punti con Freddie Michalak, dopo una serie di incursioni profonde e sostenute, fermata col tipico cinismo neozelandese. In tali fasi gli Sharks han fatto intravvedere un game plan interessante, fatto ovviamente di pressione e fisicità sia in fase difensiva che offensiva ma non tanto di possesso quanto di pressione territoriale, al prezzo di rischiare le ripartenze avversarie. Interessante anche la difesa attorno all'apertura, ovvio target per i principi dell'offload neozelandesi: Sonny Bill Williams veniva regolarmente raddoppiato e la difesa rovesciata metteva ogni apertura larga a rischio intercetto (due quelli sfiorati, da JP Pieteresen per il resto in ombra e da Lwazi Mvovo).
Sin qui le note positive, non solo per i tifosi dei sudafricani ma per gli amanti del bel rugby, perché la partita era giocata aperta ad altissimo livello da ambo le parti e al primo errore poteva pendere da una parte o dall'altra indifferentemente.
La risposta Chiefs è stata il non cambiare quel che sono: difesa attenta, "sporchina" e cattiva ma mai troppo, anche se il pilone Ben Tameifuna (nella foto) verrà citato per un braccio calato sul collo di Kankowski a mo' sbarra del passaggio a livello; il nr.8 si rialza e va subito a saltare in rimessa come se nulla fosse (questi sono i Boks che apprezzo). Una volta riconquistato il possesso, i Chiefs ripartono con la trazione 15x15: è una squadra in cui tutti ma proprio tutti fanno i ball carrier, servono offload, sostengono e si propongono vicini al compagno con l'ovale. Tutti i sostegni sono pronti e reattivi a ogni tipo di passaggio, a ogni scelta e a ogni posizionamento avversario, nonostante la pioggia. Uno spettacolo di passaggetti continui, raramente privi di senso o "palla uomo" all'italiana perché non si sa più dove andare. Oltre a questo si distingue Aaron Cruden, licenza di inventare un po' come il francese dall'altra parte, oggi decisamente spento come tutti i suoi che sin qui han dato tutto. Rispetto al solito, il giovane Kiwi erede designato di Dan Carter oggi ha insistito coi calcetti a scavalcare la linea.
Il tutto viene eseguito a un ritmo insostenibile per questi Sharks debilitati dai fusi orari. Reggono bene quasi un quarto di gara ma poi alla prima occasione in cui SBW sfugge al raddoppio, suo cugino Tim Nanai Williams determina la partita tagliando tutto il fronte d'attacco da destra verso sinistra, proponendosi al puntuale offload dell'apertura, con un angolo perfetto per ali e trequarti Sharks: è 7-3.
In generale non sarebbe un dramma: fuoricasa, sottobreak ... ma chi conosce gli Sharks sa che non è così che avevano immaginato la partita. Guarda caso, il break viene raggiunto e poi superato al 25' e 33' grazie a due indiscipline gratuite e in zona piazzabile dei fratelli DuPlessis: indisciplina indice di lucidirà traballante, l'acido lattico sta vincendo la battaglia coi neuroni. E' il 13-3 con cui si chiude il primo tempo. Fosse una gara normale, nulla sarebbe deciso, ma questa non lo è.
Difatti il secondo tempo inizia col matador: gli Sharks non possiedono le risorse per recuperare, l'iniziativa è sempre più in mano ai Chiefs. Notare, non è un singolo reparto o fase che ceda, chessò la terza linea che prevalga o i centri o le ali che rompano la linea: è piuttosto una frazione di secondo sistematica e diffusa di ritardo individuale Sharks che progressivamente diventa mezzo secondo, e a questi livelli è fatta. Nemmeno si parlano tra loro i sudafricani: tanto che c'è da dirsi? Per i neozelandesi diventa tutto più facile col tempo che passa, contrariamente alla semifinale coi Crusaders: i dati sul possesso sono imbarazzanti come quelli sui breakdown e sui placcaggi subiti (segno di prevalenza in attacco). Non sul territorio, a dimostrazione che pur senza energie, gli Sharks non han fatto solo i turisti.
L'occasione che determina la partita è involontariamente procurata al 45' da Mtawarira, che di forza gira una mischia sui 5 metri guadagnata dai neozelandesi mettendo pressione su Michalak. Latimer si trova ravvicinato alla linea di meta, si stacca e taglia fuori alla basket capitan Daniel (prova incolore anche la sua: è la cartina al tornasole della crisi energetica, lui non ne fa mai), lasciando al suo nr.8 Kane Thompson una corsia preferenziale alla meta.
Su questo 20-3 la partita è finita, non ci sono risorse cui attingere per rovesciarla. I cambi Sharks avvengono già al 50' ma non c'è la qualità e soprattutto la freschezza che servirebbe. Il primo a uscire è Alberts, fuori ruolo e per giunta in campo con la pubalgia. A proposito di freschezza: Patrick Lambie non si distingue dal generale incolore, per lui è una stagione travagliata dagli infortuni; l'altro rientro per la finale, il centro 20enne Paul Jordaan (ricorda Butch James nel fisico), si dà da fare ma soffre.
La reazione degli ospiti procura solo il secondo piazzato, centrato da uno spazientito Michalak, che si lagna con l'ottimo arbitro Welsh (ora decisamente il migliore al Mondo) per la quantità industriale di falli professionali degli avversari: è la Nuova Zelanda, bellezza ...
Di più non ce n'è; di più c'è l'inevitabile prendersi dei rischi. Difatti all'ora di gioco Lelia Masaga, uno 5 dei reduci del massacro subito a Pretoria tre anni orsono dai Bulls e subentrato al positivo Nanai Williams, lo rimpiazza in tutto e per tutto marcando anche lui meta, dopo essersi impadronito dell'ovale dopo un errore sudafricano ed aver seminato la difesa in scrambling.
Mentre all'inizio era una partita godibilissima ora non si vede l'ora che finisca, come in un combattimento di pugilato in cui uno dei due venga massacrato ma non tanto da andare al tappeto.
Nel finale ce n'è anche per l'enfant gatè Sonny Bill: è lui ad andare in visibilio concludendo una azione offensiva Chiefs con la quarta meta, e corre ad abbracciare il pubblico, apoteosi al saluto definitivo di un rapporto breve - una stagione - ma pienamente soddisfacente per tutti: primo titolo ai Chiefs, pokerissimo Union per SBW dopo NPC, TriNations e Mondiale.
Sentite ma composte le esultanze finali dei Moloo's Men (Tameifuna a parte, che manco fosse un Apache brandisce un'ascia da combattimento), col gran capitano Craig Clarke a riconoscere agli avversari le circostanze avverse; visibile ma composta anche la delusione dei componenti la squadra del KwaZulu-Natal: forse molti pensavano che giovedì si ricomincia, la nazionale Springboks tra due settimane inizia il Championship.
Alla fine la differenza la fanno una meta per tempo neozelandese (le altre due oltre l'ora di gioco eran garbage time) contro un piazzato per tempo, ed è la quarta volta in fila che gli Sharks non riescono a far meta ai Chiefs.
I fattori cruciali della partita sono stati la stanchezza e in una certa qual misura l'appagamento Sharks (per la vittoria con gli Stormers del weekend scorso, voluta e meritata ma di Pirro per il rugby sudafricano), sui quali s'è lanciata senza pietà la macchina da guerra a trazione 15x15 tutta intensità, allestita splendidamente in una stagione dal debuttante a questi livelli Dave Rennie col consigliori senior Wayne Smith.
I sudafricani han retto molto bene per un quarto d'ora, arrivando ad impensierire i padroni di casa ma raccogliendo solo 3 punti con Freddie Michalak, dopo una serie di incursioni profonde e sostenute, fermata col tipico cinismo neozelandese. In tali fasi gli Sharks han fatto intravvedere un game plan interessante, fatto ovviamente di pressione e fisicità sia in fase difensiva che offensiva ma non tanto di possesso quanto di pressione territoriale, al prezzo di rischiare le ripartenze avversarie. Interessante anche la difesa attorno all'apertura, ovvio target per i principi dell'offload neozelandesi: Sonny Bill Williams veniva regolarmente raddoppiato e la difesa rovesciata metteva ogni apertura larga a rischio intercetto (due quelli sfiorati, da JP Pieteresen per il resto in ombra e da Lwazi Mvovo).
Sin qui le note positive, non solo per i tifosi dei sudafricani ma per gli amanti del bel rugby, perché la partita era giocata aperta ad altissimo livello da ambo le parti e al primo errore poteva pendere da una parte o dall'altra indifferentemente.
La risposta Chiefs è stata il non cambiare quel che sono: difesa attenta, "sporchina" e cattiva ma mai troppo, anche se il pilone Ben Tameifuna (nella foto) verrà citato per un braccio calato sul collo di Kankowski a mo' sbarra del passaggio a livello; il nr.8 si rialza e va subito a saltare in rimessa come se nulla fosse (questi sono i Boks che apprezzo). Una volta riconquistato il possesso, i Chiefs ripartono con la trazione 15x15: è una squadra in cui tutti ma proprio tutti fanno i ball carrier, servono offload, sostengono e si propongono vicini al compagno con l'ovale. Tutti i sostegni sono pronti e reattivi a ogni tipo di passaggio, a ogni scelta e a ogni posizionamento avversario, nonostante la pioggia. Uno spettacolo di passaggetti continui, raramente privi di senso o "palla uomo" all'italiana perché non si sa più dove andare. Oltre a questo si distingue Aaron Cruden, licenza di inventare un po' come il francese dall'altra parte, oggi decisamente spento come tutti i suoi che sin qui han dato tutto. Rispetto al solito, il giovane Kiwi erede designato di Dan Carter oggi ha insistito coi calcetti a scavalcare la linea.
Il tutto viene eseguito a un ritmo insostenibile per questi Sharks debilitati dai fusi orari. Reggono bene quasi un quarto di gara ma poi alla prima occasione in cui SBW sfugge al raddoppio, suo cugino Tim Nanai Williams determina la partita tagliando tutto il fronte d'attacco da destra verso sinistra, proponendosi al puntuale offload dell'apertura, con un angolo perfetto per ali e trequarti Sharks: è 7-3.
In generale non sarebbe un dramma: fuoricasa, sottobreak ... ma chi conosce gli Sharks sa che non è così che avevano immaginato la partita. Guarda caso, il break viene raggiunto e poi superato al 25' e 33' grazie a due indiscipline gratuite e in zona piazzabile dei fratelli DuPlessis: indisciplina indice di lucidirà traballante, l'acido lattico sta vincendo la battaglia coi neuroni. E' il 13-3 con cui si chiude il primo tempo. Fosse una gara normale, nulla sarebbe deciso, ma questa non lo è.
Difatti il secondo tempo inizia col matador: gli Sharks non possiedono le risorse per recuperare, l'iniziativa è sempre più in mano ai Chiefs. Notare, non è un singolo reparto o fase che ceda, chessò la terza linea che prevalga o i centri o le ali che rompano la linea: è piuttosto una frazione di secondo sistematica e diffusa di ritardo individuale Sharks che progressivamente diventa mezzo secondo, e a questi livelli è fatta. Nemmeno si parlano tra loro i sudafricani: tanto che c'è da dirsi? Per i neozelandesi diventa tutto più facile col tempo che passa, contrariamente alla semifinale coi Crusaders: i dati sul possesso sono imbarazzanti come quelli sui breakdown e sui placcaggi subiti (segno di prevalenza in attacco). Non sul territorio, a dimostrazione che pur senza energie, gli Sharks non han fatto solo i turisti.
L'occasione che determina la partita è involontariamente procurata al 45' da Mtawarira, che di forza gira una mischia sui 5 metri guadagnata dai neozelandesi mettendo pressione su Michalak. Latimer si trova ravvicinato alla linea di meta, si stacca e taglia fuori alla basket capitan Daniel (prova incolore anche la sua: è la cartina al tornasole della crisi energetica, lui non ne fa mai), lasciando al suo nr.8 Kane Thompson una corsia preferenziale alla meta.
Su questo 20-3 la partita è finita, non ci sono risorse cui attingere per rovesciarla. I cambi Sharks avvengono già al 50' ma non c'è la qualità e soprattutto la freschezza che servirebbe. Il primo a uscire è Alberts, fuori ruolo e per giunta in campo con la pubalgia. A proposito di freschezza: Patrick Lambie non si distingue dal generale incolore, per lui è una stagione travagliata dagli infortuni; l'altro rientro per la finale, il centro 20enne Paul Jordaan (ricorda Butch James nel fisico), si dà da fare ma soffre.
La reazione degli ospiti procura solo il secondo piazzato, centrato da uno spazientito Michalak, che si lagna con l'ottimo arbitro Welsh (ora decisamente il migliore al Mondo) per la quantità industriale di falli professionali degli avversari: è la Nuova Zelanda, bellezza ...
Di più non ce n'è; di più c'è l'inevitabile prendersi dei rischi. Difatti all'ora di gioco Lelia Masaga, uno 5 dei reduci del massacro subito a Pretoria tre anni orsono dai Bulls e subentrato al positivo Nanai Williams, lo rimpiazza in tutto e per tutto marcando anche lui meta, dopo essersi impadronito dell'ovale dopo un errore sudafricano ed aver seminato la difesa in scrambling.
Mentre all'inizio era una partita godibilissima ora non si vede l'ora che finisca, come in un combattimento di pugilato in cui uno dei due venga massacrato ma non tanto da andare al tappeto.
Nel finale ce n'è anche per l'enfant gatè Sonny Bill: è lui ad andare in visibilio concludendo una azione offensiva Chiefs con la quarta meta, e corre ad abbracciare il pubblico, apoteosi al saluto definitivo di un rapporto breve - una stagione - ma pienamente soddisfacente per tutti: primo titolo ai Chiefs, pokerissimo Union per SBW dopo NPC, TriNations e Mondiale.
Sentite ma composte le esultanze finali dei Moloo's Men (Tameifuna a parte, che manco fosse un Apache brandisce un'ascia da combattimento), col gran capitano Craig Clarke a riconoscere agli avversari le circostanze avverse; visibile ma composta anche la delusione dei componenti la squadra del KwaZulu-Natal: forse molti pensavano che giovedì si ricomincia, la nazionale Springboks tra due settimane inizia il Championship.
2 commenti:
Lettura come al solito completa e condivisibile, questa volta, anche se si scriveva " una squadra in campo, l'altra in aereo" e basta, bisognava dire lettura perfetta. Le due semifinali sono state molto ma molto più "belle"
Tnxs Ivanot, stavolta il fondamento di questa finale era evidente, nel ns. caso il punto in più è la "vittoria di Pirro" Sharks, che in qualche modo ha spiazzato il rugby sudafricano: una Stormers-Chiefs a Città del Capo sarebbe stata interessante. Forse ancor più bloccata però.
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