venerdì 1 febbraio 2008

Dichiarazione d'amore

Post scritto in attesa di vedere in televisione lo spettacolo di Paolini

Facciamo due conti. Ci sono poche cose che danno soddisfazione nella vita. Come direbbe Cormac Mcarthy, per essere contenti occorre trovare il lavoro che piace e la donna da amare con la quale condividere l’esistenza. Difficile binomio da realizzare, si capisce. Però la vita è una sfida e quindi tanto vale mettersi in testa di raggiungere i due obiettivi.

Ecco, il rugby è per questo che può essere una metafora delle nostre vite. Perché nel rugby il sacrificio è finalizzato non solo a vincere, ma a convincere se stessi di aver meritato quanto di buono si è fatto in campo e fuori dal campo. Allenamenti duri, partite ancora più terribili, sbornie praticamente impossibile da smaltire nel breve periodo. Certo, questo è un mondo che sta cedendo il passo al professionismo, però rimane di buon auspicio il comportamento di un campione del mondo come Bakkies Botha che, una volta conclusa alla grande la spedizione in Francia 2007, alzata la coppa al cielo è tornato dalle sue parti, in Sud Africa, per prendersi cura della sua fattoria.

Il 6 Nazioni è un torneo antico, lo sappiamo. Di gran fascino, va da sé. Ha lanciato leggende e impresso nei cuori dei tifosi idoli ed azioni indimenticabili. Ha attraversato la storia d’Europa dall’epoca degli ultimi grandi imperi, è sopravvissuto a due guerre mondiali, ha profetizzato gli anni ’60 e ’70 con i basettoni gallesi, ha trainato il rugby al professionismo, involontariamente. Ha accolto l’Italia in prima fila, rendendolo non solo territorio anglosassone, ma anche latino.

La malinconia per certe sere trascorse sul campo monta quando si approssima il calcio d’inizio della nuova edizione. Per quanto poi le cose spesso vanno diversamente da come narrano. Perché d’accordo che abbiamo avuto i beniamini da voler replicare nel nostro piccolo, però gente, siamo sinceri: quando il fiato finiva e le gambe non si muovevano più chi se ne fregava dei grandi da voler imitare! Era l’ultimo dei pensieri. Il rugby ci riconduceva alla realtà, all’essere noi stessi in mezzo agli altri, ad essere un elemento di una squadra.

Tempo fa, con i Mondiali in corso, ho avuto modo di litigare con un giovane che passò sul mio vecchio blog per accusarmi di aver politicizzato questo sport. Il piccolino dava segni di immaturità, di logica supponenza legata alla giovane età. Chi prova a politicizzare il rugby finisce male, perché il rugby è fatto di uomini e ognuno, su questa terra, ha il sacrosanto diritto di pensarla come meglio crede. Però…

Però il rugby è nato in una scuola inglese, in una scuola inglese protestante. E nei college di Albione insegnano che prima di tutto viene il successo personale, la gratificazione. Anche, se non a volte soprattutto, attraverso lo sport perché lo sport è sforzo fisico, è lotta contro la natura, è selezione della specie. Chi vince, chi perde, chi perde vincendo la sua personalissima sfida. In una squadra ci sono quindici elementi ed ciascuno è fondamentale, ma prima di tutto è fondamentale a se stesso perché basta che uno di quei 15 elementi non funzioni e l’ingranaggio di rompe. C’è la gerarchia, come in tutti i casi della vita. C’è il saper stare zitti in attesa di alzare la voce prendendosi soddisfazioni, interessi inclusi. Come in tutti i casi della vita.

Una volta il socio Danny ha ricordato che nei colloqui di assunzione sempre dalle parti della perfida Albione possono venirti a chiedere che sport hai praticato. E se rispondi “rugby” hai risposto tutto. L’uno contro l’uno, il placcaggio, il rialzarsi, il sostegno, il passaggio, il calcio, la mischia: tutto quello che si fa su un campo da rugby, inevitabilmente lo si rifà nella vita. E non venite a dirmi che la vita non è fatta di singoli che si ritrovano in mezzo agli altri. E che in questi altri finisce per scovare gli ipotetici quattordici colleghi con i quali dire: eccoci, io sono con la mia squadra.

1 commento:

Abr ha detto...

"Corri avanti e passa indietro": avanza senza paura mettendoci la faccia, e sai che dietro c'è un tuo "mate" che corre con te per supportarti; a te essere a tua volta il suo supporto suo quando è lui davanti. Da solo sei nessuno, senza di te non sono nessuno.
Vale per chiunque, capitano o recluta.
What a metaphor Brett! What a sport!

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