6 Nazioni: il sostegno delle note
Ci sono due versioni dello stesso soggetto, l’Europa. Da una parte quella parassitaria e avvezza a regolamenti e direttive che si muove nei palazzi della politica. Dall’altra, per nostra fortuna, c’è quello scontro fisico, del faccia a faccia, del vicendevole sostegno e degli applausi che vive sui campi da gioco dove la porte hanno la forma di una “H”. E’ la vecchia Europa del rugby che tra qualche ora aprirà i fuochi per il 6 Nations 2010. Nel nuovo rugby, questo torneo ha valori diversi, ma quanto mai interessanti e da brividi. Se lo disputano tra febbraio e marzo, a cavallo della stagione dei club impegnati tra campionati, coppe nazionali e coppe internazionali, prima fra tutte la Heineken Cup, luppolo d’eccellenza per la palla ovale boreale. Non è un caso che, a parte i test matches di novembre, l’attenzione nel corso degli altri mesi cada proprio su queste competizioni per valutare lo stato di salute di giocatori, movimenti e mentalità. Poi scatta il drop di inizio partita della manifestazione sportiva più antica al mondo. Mica per caso, si capisce. Il 6 Nations è – e lo abbiamo ripetuto un sacco di volte – lo specchio di ogni nazione che ci partecipa. La spumeggiante Francia, bollicine e sostanza, ma con l’incombente rischio che qualche volta la bottiglia sia andata a ramengo. La volontà irlandese di un popolo che non ha mai chinato il capo di fronte ai colonizzatori e che un anno fa coronò un lungo sogno: trionfare immacolata alla voce sconfitte. L’orgoglio inglese da qualche tempo ammaccato, ma che se si riunisce come Dio comanda attorno ad una tazza di tea per impostare le operazioni, ricordano gli ultimi uomini a baluardo contro il Blitzkrieg di Hitler (e la contessina sul castello, ovviamente). La passione gallese dove il rugby è il gioco della Mae hen wlad fy nhadau,la terra dei padri. Gli spigolosi scozzesi che hanno abitato le terre più impervie dell’isola britannica, sotto continui scrosci di pioggia, innaffiata da malto, doppio malto e whiskey. La non più matricola Italia che va su e giù, illude e si risveglia traumatizzata, ma coltiva la forza della mischia alla faccia della dieta mediterranea: tanta carne al fuoco. Da che mondo è mondo, il rugby è cultura e ha impresso il Dna di ciascun popolo che lo pratica perché chiama a raccolta gli uomini, XV vs. XV, ognuno con un proprio background e un capitano al quale aggrapparsi per portare sempre più avanti l’ovale. Metafore della vita: tu corri, io ti sto accanto, ma né alla pari né un passo di troppo avanti. No, giusto uno dietro per poi farmi trovare pronto quando è il momento che sia lì a offrirti il mio sostegno. Se la catena è ben oliata e non si ingarbuglia, allora si prosegue. Altrimenti diventa dura. Il rugby è l’epica della guerra che si combatteva secoli fa, ma che torna pacificamente a riecheggiare ogni volta che lo stadio si riempie, gli inni si alzano e le truppe si schierano. In guerra si combatte e ci si aiuta per sopravvivere e lo si fa anche con le canzoni. La Storia ad esempio ci ha tramandato i canti dei nostri Alpini durante la Grande Guerra. Il rugby quelli dei tifosi che raccolgono sempre dalla Storia per poi trasformare il tutto in una grande festa. Uno fra tutti, quel canto che inonda le tribune irlandesi: The Fields of Athenry. Composta attorno agli anni ’70, la canzone è ambientata ai tempi della grande carestia che colpì l’isola tra il 1845 e il 1849. Un ragazzo è stato condannato alla deportazione in Australia per aver rubato del cibo nel disperato tentativo di dare da mangiare alla famiglia. Molto Irish, non c’è che dire. Da chi pane non ne ha a chi ne ha avuto fin troppo, sempre metaforicamente si intuisce. Perché non è che in Galles facessero festa tutti i giorni nei tempi addietro. Eppure prima all’Arms Park ed oggi al Millennium Stadium si alza ogni volta che occorre si alza il verso “Bread of Heaven / feed me ‘till a I want no more”. Un canto religioso perché la tradizione vuole che Dio si diverta a guardare i gallesi impegnati a giocare la palla ovale. In linea teorica sarebbe religioso o quanto meno spiritual l’adagio che cantano a Twickenham: Swing Low Sweet Chariot celebra l’anima, il corpo e il ritrovo con i vecchi amici al di là del fiume Giordano, una volta finito tutto. I tifosi inglesi la intonano quando le cose vanno bene, come se la carrozza cigolante dovesse trasportarli lenti al pub. Di tutto questo non c’è traccia nella nuova Europa. Chi se ne frega, finché ci saranno la porte a forma di “H” ci sarà vita.
9 commenti:
Bel controcanto agli "Inni", socio, richiamando quel che si canta negli spalti.
Potremmo lanciare un concorso per trovarne uno italiano al posto di "Alè oh oh" ...
Io voto per la canzone del rugbista!
Non metti mai un cavolo di link:
http://www.youtube.com/watch?v=xFKxmfTJ54Q
L'ultimo l'ho fatto di proposito. Non volevo turbare magari gli animi di qualche lettrice che per caso passasse di qua.
Ringo, una bella idea. Secondo me però, come dire... manca di un filo di "solennità" che caratterizza gli inni gaelico-britannici! ;-)
Si, non saranno inni ma canti da spalto, ma in effetti non oso pensare gli effetti di una traduzione inglese sulle pruderie anglosassoni: su questi argomenti nei pub so' peggio dell'arcivescovo di Canterbury...
Qui non abbiamo la cultura: altro che cantà, quelle poche volte che si vince si sta col cuore in gola e l'occhio al cronometro, quando si perde si critica l'allenatore o gli "stranieri" invece di incoraggiare ...
Tema tosto. Eppure i calciofili qualche anno fa s'inventarono il "poppopoppopo-poooo ..."
Non proprio un inno ma un'aria gallese di Max Boyce in tema col post:
http://www.youtube.com/watch?v=qMKsrjOqW6o
Pim
Confermo: è l'intrattenimento e ogni tanto il ritornello parte anche durante i match.
Molto bello, l'articolo, Ringo, complimenti.
Saluti da Monaco (di Baviera). Sarete a Roma per la partita contro la Scozia? Io ci sarò!
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