martedì 11 marzo 2014

From NZ with love

Metto subito il disclaimer? No perché con il libro “Meta Nuova Zelanda. Viaggio nella terra del rugby” di Elvis Lucchese (quello di rugbypeople, per capirci) ho un piccolo conflitto d'interessi... Ci si trovava nella club house del Bassano, preparata ad arte da Zio Roby e la sorella (con l'intercessione di Giampy), e c'erano anche un certo Vittorio con un certo Marzio, un certo Alberto, un certo Valerio, un certo Michele e anche un Marco. Ma non dirò di più, che l'argomento è un altro.

L'autore, come pure il sottoscritto, è storico di formazione, e nel libro si vede. Ed è un bene. Non c'era bisogno di un libro che raccontasse i soliti aneddoti farciti dai luoghi comuni del rugby, e infatti qui dentro ci sta tutto il resto, quello che serve. C'è metodo alle spalle, c'è capacità di scrittura, c'è sincretismo, c'è occhio attento e curioso non solo alla palla ovale, ma anche a tutte quelle relazioni apparentemente non collegate al rugby. Relazioni inaspettate, talvolta, tanto che ci si ritrova spesso in Italia, in Veneto (anche con Fogazzaro!), sebbene si parli di angoli a noi sconosciuti della Nuova Zelanda. Eh sì, perché Elvis respira il rugby nella sua terra promessa durante gli ultimi mondiali in un viaggio che accompagna da nord a sud la breve avventura azzurra. E più di qualche volta ti pare di essere davvero nella campagna veneta, quella contadina e nebbiosa, del rugby, meglio se di qualche decennio addietro. E ti viene da pensare che forse la via da seguire per un modello rugbystico vincente in Italia (soprattutto in termini quantitativi e culturali) sia diversa da quella progettata negli anni dondiani (e gavazziani?) della Fir, che assomigli di più all'organizzazione neozelandese (e in qualche caso, veneta) dei decenni pre-professionismo. 

Prendi il libro, ti leggi poche pagine e bum! Ti ritrovi a Thiene. Ma anche a Padova, a Casale, a San Donà, a Villorba, ti rivedi Umaga nelle vesti del Viadana, Campese in quelle del Padova, Kirwan a Treviso e Thiene, Craig Green, Billy Bush... ma soprattutto capisci cosa è la storia del rugby, che non è banale statistica, mero elenco di nomi, punti, partite, mete, comunicati federali, ecc., ma è storia della società, di cultura, di razzismo. Ti vedi gli scontri per l'apartheid come quelli tra neri e rossi fra calabresi e veneziani. Ci trovi storie d'italiani, ma anche no, storie di gente della Nuova Zelanda, ti vedi raccontata la crisi del rugby neozelandese, la storia dei maori, della nascita dell'imbattibilità casalinga dei cannibali neozelandesi. Ci trovi e rivivi il mondiale dalla parte dei neozelandesi e quello dell'Italia, i suoi rimpianti (soprattutto per non aver dato a Mallett quel Gower che tanto gli serviva laggiù... Federazione birichina!) e i suoi limiti, il clan argentino e le strane scelte, più o meno influenzate dall'invadenza federale. E' pensando proprio a un passaggio di questo libro bellissimo, da leggere, che mi sono arrabbiato dopo la partita di sabato

Una partita penosa (nel senso della pena fisica), vissuta in apnea, in cui siamo restati a galla solamente per l'eroismo di certi giocatori che con le loro azioni d'arditi riuscivano a prendere metri e, in un caso, a far punti. Difesa molto buona negli ultimi ventidue, quasi una linea di trincea, atti d'eroismo sporadico che ci permettono talvolta di avanzare, ma poi si torna lì, nei nostri ventidue a lottare fino al crollo sporadico, causato spesso da placcaggi portati male o non portati affatto, con qualche giocatore al di sotto di qualunque standard di decenza. Manca poi qualunque tattica offensiva. 

Dicevo, appunto, che pensavo a un passaggio del libro, quando si parla della partita con gli Stati Uniti, dove aveva vinto la mischia italiana, giocando – estremizzo, Elvis – da sola, in ottemperanza a un gioco “a forza 8” che forse, tutto sommato, era quello che Mallett intendeva sfruttare come base di partenza per costruire la sua Italia. Poi è mancato il 10 calciatore fantasista (ammesso che Mallett cercasse anche fantasia), l'11, il 13 e il 14 (in alcuni frangenti del Mondiale sembrava addirittura peggiorato il sistema difensivo, forse l'emozione), ma più di metà lavoro l'aveva fatto. Difesa quasi perfetta, e mischia avanzante. Mancava il frizzante. 

Un frizzante che si sperava di trovare nel francese Brunel. Subito ci siamo illusi che avesse capito, che forse Mallett aveva esagerato con alcuni suoi canoni – sotto i 90 kg non puoi giocare apertura, devi calciare sempre anche a cazzo, l'ala che non vede un pallone ma è lì per difendere e poco altro –, ma che partiva da una base da mantenere intatta o quasi. E invece ora ci ritroviamo con un po' di selz in attacco (anche se la bomboletta sembra quasi scarica) ma con difesa e mischia regredite a livelli pre-africani (prima di Mallett e del suo esperto delle ruck). 

Se ci accorgiamo che il selz è in realtà grappa, ci pare di essere disperati in guerra. Ma non ce ne accorgiamo, sta tranquillo Giacomino.

@talinotalepe

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