giovedì 19 maggio 2011

Valori e valorizzazioni nel mondo del rugby


Brown Ribbon era il nastrino di una vecchia campagna contro l'ipocrisia "Politically Correct"; ora è il titolo della rubrica di RightRugby per le polemiche controcorrente. Una rubrica che non ha paura di rischiare tackle un po' alti o prese di posizione apparentemente imbarazzanti, come quella di Bakkies Botha su Jimmy Cowan nel logo. Del resto: "If you can't take a punch, you should play table tennis".

Già il parallelo stesso che proponiamo stavolta è ai limiti del blasfemo: solo degli irredimibili privi di correctness qual siamo, potevano immaginare di accostare il seconda linea italo-argentino Santiago Dellapè - uno cui ben si attaglia la definizione di "mulo degli alpini", per come in campo si sobbarca il peso del lavoro sporco - e il supremo, eccelso, quasi angelico Dan Carter. Calcano le stesse erbe e combattono nello stesso sport ma le cose in comune tra loro, classe a parte, parrebbero finire qui, tipo Bruscolotti e Maradona. Invece c'è dell'altro in comune: entrambi hanno annunciato praticamente in contemporanea quella che si definisce "una scelta di vita".

Il 33-enne italo argentino ha infatti comunicato a sorpresa di non essere più disponibile ad accettare convocazioni nella nazionale italiana, mentre l'apertura neozelandese ha deciso di legarsi alla sua nazionale, gli All Blacks, fino al 2015.
L'informazione locale non s'impegna molto nell'analisi del "gran rifiuto" di Dellapè, del suo "sottrarsi dalla lotta" in un momento cruciale, forse lo considera un elemento di secondo piano; nessuno si sofferma a commentare la prima defezione da quello che veniva spacciato come un "gruppo Azzurro coeso" e allineatissimo con Mallett. Il mainstream si limita a sottolineare la sorpresa, mentre invece all'opposto si scapicolla unanime a celebrare Dan Carter, modello comportamentale in campo e fuori, uno che dice no al "big money" francese per l'attaccamento alla maglia degli All Blacks.

Apparentemente la scelta di Carter è opposta a quella di Dellapè che enuncia in modo molto trasparente le sue motivazioni: "So che sembro pazzo a rinunciare al Mondiale ora, ma io ci sono già stato e so cosa vuol dire a livello fisico e mentale. Alla mia età devo pensare al meglio per me, cioè onorare col massimo impegno i due anni di contratto che mi rimangono con il Racing".
Uno pensa al meglio per se, l'altro al meglio della sua Nazione a costo di rimetterci? Due strade che più divergenti non potrebbero essere, all'apparenza: la scelta egoistica, di mera autotutela, priva di considerazione per la bandiera nazionale da parte del lock italo-argentino, contrapposta all'attaccamento alla Nazione, al romanticismo nazional-popolare "più bandiera meno soldi" con annesso richiamo ai "veri valori" del rugby da parte del campionissimo, vero modello da additare ai ggiovani e speranza per i veci nostalgici.
Ci spiace se deludiamo qualcuno ma forse le cose non stanno esattamente così, le similarità nei due annunci sono più alte di quanto non sembri e soprattutto come spesso succede,  di quanto venga raccontato.

Se andiamo infatti a sfruculiare i motivi a supporto della decisione di Dan Carter di rimanere in Nuova Zelanda fino ai Mondiali Inglesi del 2015, da un lato è sicuro che la "paghetta" (un paio di milioni) che otterrà dalla NZRU non regge il confronto con quanto avrebbe potuto ottenere da contratti euro-based, col Racing-Métro di Jacky Lorenzetti in pole position.
Sull'altro versante però, l'indossare la maglia All Blacks non è solo cuore e nazione, ha anche ottime ricadute di immagine e quindi di business: rafforza il valore dei contratti di sponsorizzazione con Adidas e una casa di lingerie che Carter intasca. Le somme extra che ne ricava non bilanciano certo le entrate dei potenziali contratti francesi, ma riducono notevolmente il divario tra i due income: a starsene a casa suaCarter insomma non ci rimette quanto sembrerebbe a prima vista.
In più c'è un intangible molto importante. cui Carter fa bene a dare il dovuto peso: all'estero inevitabilmente sarebbe non solo "spremuto" ma anche "targettato" (a Perpignan nel 2009 si ruppe il tendine d'Achille nel giro di poche partite), mentre in Nuova Zelanda la Federazione protegge i suoi atleti più rappresentativi con programmi di conditioning che limitano il numero di gare giocate a parità di stipendio.
Emerge il medesimo concetto chiave espresso da Dellapè: l'autotutela, sapendo che a quei livelli, meno si gioca meno si rischia e quindi più si guadagna. Carter glissa sul tema ma gli sfugge un cenno, quando confessa che la Nuova Zelanda gli pare il posto più adatto (e meno caro, aggiungiamo noi) per crescere una famiglia.

Facendo i conti in tasca al nostro, sommando tangibles e intangibles tra avventure europee e il rimanersene "coi fioi" a casa sua, già solo sin qui si arriva quasi alla pari, ma non è tutto.
Chi loda la decisione di Carter di rimanere fedele alla maglia Tutta Nera, non ha fatto caso che nel contratto mica c'è scritto che non potrà più indossarne altre di club esteri, anzi. Una clausola evidentemente nè standard nè presente per caso nel contratto testè firmato con la NZRU, sancisce il diritto del'apertura neozelandese di prendersi dei "Sabbatical leave" (sospensioni del contratto) lunghi sino a un anno, usandoli come crede. Il cavillo del periodo sabbatico è lo stesso che fu usato per liberarlo nel 2009 e lasciarlo andare al Perpignan, evitando la rottura aperta con la Union neozelandese.
Può darsi che il nostro intenda usare tale "leave" solo per sposarsi e farsi una bella luna di miele, e allora auguri e figli ... avanti, ma non si fa peccato a pensare che abbia voluto tale clausola, avendo già in mente qualcosa di altrettanto douce e molto più redditizio. O perlomeno per lasciarsi le porte aperte, sa mai se alla futura mogliettina gli pungesse vaghezza di un paio di milioncini di euro in più per allargare il porch di casa.
Diciamolo allora, se non vogliamo prendere in giro chi legge: siamo sulla medesima linea della l'autotutela annunciata pubblicamente con molta trasparenza dall'onesto lavoratore della palla ovale Dellapè; in più nel caso di Dan Carter siamo oltre, al gran bell'affare secondo le sane e immutabili regole di mercato, come è giusto sia per uno che vale e giustamente lo valorizza. Con buona pace degli inguaribili romanticoni (sempre col portafogli altrui però).

1 commento:

ringo ha detto...

Il pragmatismo del Socio è uno dei motivi per cui vale la pena tornare in Italia. Non scherzo - dopo giorni trascorsi alle prese con l'Unione europea ;)

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