mercoledì 13 aprile 2011

L'argent de Pro

Il rugby è stato l'ultimo sport maggiore a diventare ufficialmente "Pro".
Si trattò di un salto paragonabile all'ingresso nell'Euro per molte Nazioni che non siano Francia e Germania: gioie e dolori, opportunità e fregature, stabilità e incertezza, rigidità e aperture di mercato. Il paragone tra Pro ed Euro è efficace in quanto entrambi comportano l'esposizione alla concorrenza sistemica attraverso le frontiere.
Come dall'Euro non si torna indietro, anche vagheggiare dei "bei tempi andati" del finto dilettantismo non è una opzione praticabile, si tratta volenti o nolenti di fare un salto managerial-finanziario e non solo sportivo. O meglio, prima manageriale e quindi di conseguenza sportivo.  Mettici anche la crisi economica, con la fine delle rendite di munifici sponsor "too big to fail" e il diradarsi di capitali su attività poco "studiate" e troppo prone alle passioni, e vediamo le conseguenze sullo sport tutto e sul rugby, in particolare in Italia: due sole squadre in grado più o meno di reggere almeno temporaneamente il livello Pro, tutte le altre han gettato la spugna rifugiandosi in un localismo con poche prospettive e un bel po' di "oriundi" si son trovati abbandonati al loro destino.

Non è solo un problema italiano, è (almeno) europeo.
Stanno già mostrano la corda le scorciatoie para-protezionistiche basate su franchigie nazionali finanziate dalle Federazioni, cui l'Italia s'è ispirata (fortunatamente come in tante delle sue cose centro-dirette, solo a metà).
Il sintomo della crisi di un sistema sorto con la priorità di gestire internamente gli atleti di interesse nazionale è evidentemente la loro diaspora: vedi l'esodo di nazionali iniziato l'anno scorso dalla Scozia che prosegue quest'anno e ora tocca anche il Galles: James Hook, Lee Byrne, Mike Phillips o Martyn Williams che raggiunge Andy Powell ai Wasps.
Per ora pare reggere solo l'Irlanda ma tutti sanno cosa "bolla" (il termine è appropriato) in quel Paese dal punto di vista delle finanze pubbliche, con una Federazione pesantemente esposta su un progetto molto bello ma estremamente costoso come il nuovo Aviva Stadium, deliberato ed eseguito appena prima della crisi.
Già, gli stadi, tema prima di tutto economico e non di prestigio o localistico come si crede in Italia. Dove guidano le Federazioni - Galles, Irlanda, Scozia -è tema già affrontato e risolto negli anni, magari appena in tempo come nel caso irlandese; qualcosina, parva sed apta mihi, tenta di fare la Fir col Flaminio anche in Italia, dove le pastoie se non ci sono le si inventa nel nome delle rendite di posizione.
Anche nei mercati più grandi e rugbisticamente avanzati come Inghilterra e Francia dove guidano i club e le Leghe, sono le audience presenti e paganti (ben più di quelle televisive) ad esser considerate la strada maestra da perseguire dal punto di vista finanziario e di conseguenza anche sportivo.

In Inghilterra è fresco l'annuncio del management dei Sale Sharks di tenere la prossima partita di Premiership con gli Irish lontano dall'Edgeley Park di Stockport, al Reebok Stadium di Bolton dove si cercherà di attirare 17.000 spettatori.
Non è facile in quella parte del Paese, le Midlands, più toccate di altre dalla crisi economica e dal favore popolare per calcio e League; guarda caso, a sottolineare il collegamento diretto tra economics e risultati sportivi, gli ultimi tre club in classifica Premiership sono tutti del Nord: Newcastle, Leeds e Sale. "E' la prova del nove", ha dichiarato il presidente del club Brian Kennedy, "sinora abbiamo potuto contare su uno zoccolo duro di 5-6.000 spettatori leali, ma per reggere il passo in Premiership ne serve una media di 10.000". E ha aggiunto il suo warning: "Se quel numero di spettatori arriva, sarebbe bello e si potrebbe considerare una espansione, altrimenti si rischia che gli investitori si stanchino di ripianar perdite"; "non rischiamo di chiudere", ha specificato, "solo che se mancano gli incassi saremo costretti a tagliare le spese", che sono principamente stipendi dei giocatori e costi dei prestiti per finanziar le perdite generate.
Si tratta di un rischio concreto, quello del collasso finanziario, che tocca molti club inglesi. Difatti solo due hanno riportato attivi di bilancio nello scorso esercizio: i Leicester Tigers, che stanno nuovamente investendo 4milioni di sterline nel loro stadio (per parcheggi coperti e un centro congressi) e i Northampton Saints, i quali han polemizzato con le Autorità locali che han negato loro la possibilità di ampliare il Frankin's Garden. Trovandosi costretti a spostarsi allo Stadium:mk di Milton Keynes a una trentina di kilometri, proprio quando un sorteggio gli ha messo in mano due atout formidabili per raggiungere la finale di Heineken Cup: quarti di finale (vinti contro Ulster) e semifinali (con Perpignan) entrambe in casa.
Sempre a proposito di stadi e di driver economici, anche i Saracens rilocheranno, definitivamente nel loro caso: avrebbero scelto lo Stadio Copthall di Barnett, sempre nel loro bacino storico dell'Herfordshire a nord di Londra, per passare a 12.000 posti dai 7.500 dell'attuale, glorioso Vicarage Rd. di Watford, investendo non poco (oggi è uno stadio di atletica) per ricavarci il primo campo di Elite rugby in erba sintetica.

Stadi e non solo: se i due club in attivo Tigers e Saints insistono per l'abbattimento o almeno l'innalzamento del salary cap attualmente fissato a 4,2 milioni di sterline (4,5 milioni di Euro circa), che impedirebbe di allestire squadre competitive con le francesi e le irlandesi ("Abbiamo dovuto limitare la rosa da 38 a 31 giocatori", ha dichiarato recentemente il Ceo dei Saints, "e se uno come Courtney Lawes che è cresciuto qui, ricevesse una offerta importante, non sapremmo come tenerlo"), non la vedono allo stesso modo gli altri club.
"Alzare il cap significherebbe che la nostra attività e quella della maggioranza dei club dovrebbe chiudere" ha ribattuto il presidente del Sale, aggiungendo "gli Sharks che nel 2006 vinsero la Premiership (c'era Chabal, Kayser, Saint'Andrè allenatore etc.etc., ndr) costerebbero oggi 6,5 milioni di sterline, cifra da noi non gestibile". C'è un filo di contraddizione in ciò - conferma che per vincere bisogna investire, e che neppure le misure  più "democratiche" come il cap consentono di competere pienamente ma solo di sopravvivere, come afferma il presidente dei Saints.

Non è tutto oro quel che luce, quando si parla di economics, nemmeno dove sembra che la locomotiva marci a pieno vapore, cioè in Francia.
Se alcuni club rimpinguano le casse generando sold-out a Barcelona (Perpignan), San Sebastian (Biarritz e Bayonne), allo Stade de France (Racing) o al Velodrome di Marsiglia (dove si terrà la prossima di campionato Tolone-Tolosa), se la prossima stagione arriveranno Oltralpe ulteriori campioni del calibro di Matt Giteau, Bakkies Botha, Sitiveni Sivivatu, Lee Byrne e James Hook, ci sono altri club che non reggono il passo del "pieno vapore". E non si parla qui del solito e povero Bourgoin.
Ironicamente, una che ci va di mezzo è la società che è stata la prima a raggiungere pubblici nuovi col marketing innovativo: lo Stade Francais, il cui patròn Max Guazzini dovrà rassegnarsi a passar di mano, dopo un paio d'anni di sofferenza su tutti i piani e la cessione di otto titolari l'anno scorso (tra i quali Mirco Bergamasco) in cambio dell'arrivo di un paio di giovanotti argentini, per star dentro ai limiti imposti dagli occhiuti gendarmi finanziari della Lega dei club francesi.  Il patròn dichiara che passerà "solo" la maggioranza delle azioni: pare che sia alle porte un gruppo finanziario australian-libanese (!)  che chiede il 51% e terrebbe il Guazzinì alla presidenza, ad occuparsi di marketing per lasciare la gestione sportiva, contratti e assunzioni incluse, a coach Cheika. Non si sa se questa sia la risposta che attendono capitan Parisse e gli altri 5 o 6 senatori del club (gli inglesi Haskell e Palmer in primis, minacciati di taglio dalla nazionale) ma di certo in assenza di risposte rapide e convincenti, sarà nuovamente esodo da quella parte di Parigi.
Un altro caso francese fondato sugli economics e veramente emblematico è quello di Bayonne: stasera è la grand soir,  si terrà l'assemblea degli azionisti del club, con la maggioranza dei circa 100.000 voti chiamata a dirimere il conflitto deflagrato il 26 febbraio col sack del consigliere appena nominato, l'ex sottosegretario allo sport nonchè allenatore della nazionale Bernard Laporte. I contendenti sono l'attuale presidente Francis Salagoity e l'attuale maggior sponsor Alain Afflelou. Il primo propugna una politica dei piccoli passi, da attuare pure senza i 4 milioni di euro su un budget totale di 16 apportati dal secondo (di cui un paio coperti da altri); il secondo invece vuol fare il grande salto, anche e soprattutto attirando grandi giocatori e tecnici internazionali, affermando che altrimenti il ritorno degli investimenti è troppo lungo e incerto e quindi privo di senso.

Chi va piano va sano e soprattutto lontano, come affermano Brian Kennedy di Sale e Salagoity di Bayonne, oppure più investi, maggiore e più rapido sarà il ritorno dell'investimento (ove vi siano ovviamente le condizioni), come recitano le formulette economiche, Afflelou e le direzioni di Leicester e Northampton? Stasera una parziale risposta. 



UPDATE NOTTURNO: E' stata una serata molto convulsa a Bayonne, tra scene di tifo calcistico e di passionalità caliente,  con tanto di minacce anonime di morte ricevute dal presidente uscente Salagoity, che difatti ha rinunciato a presenziare all'assemblea, dove Afflelou è arrivato circondato da guardie del corpo. L'esito del voto dell'assemblea è stato: maggioranza assoluta 50.016 voti, alla lista Afflelou 50.064 voti, a quella Salagoity 48.836, 1.310 astenuti. Dopo un po' di contestazioni procedurali, alle 23 l'assemblea dei soci ha decretato la decadenza del consiglio di amministrazione, nominando quello indicato dalla lista vincente. Il nuovo presidente dell'Aviron Bayonnais è Michel Cacouault, uomo di Afflelou. 

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